Saperi e Sapori

Il maiale, un pò di storia: dal medioevo ad oggi, tra credenze, tradizioni e produzioni.

IL MAIALE NEL MEDIOEVO

Se è vero che l’allevamento suino è praticato fin da epoche remote e in tutte le civiltà, per quanto riguarda l’Europa continentale e quindi anche la pianura, è col Medioevo che si diffonde in maniera capillare e stabile. Le invasioni di tribù germaniche tra il IV e il IX secolo determinarono profondi cambiamenti economici e negli usi alimentari. Per queste genti seminomadi il cibo per eccellenza era la carne ed in particolare quella suina. Si può stabilire una sorta di “confine” tra il prevalere dell’allevamento suino nelle aree più profondamente investite dalle conquiste barbariche, e quelle ad allevamento ovino dove il substrato “romano” resta predominante.  Inoltre l’estendersi delle aree boschive e degli incolti dovuto alla crisi dell’impero romano ed alle spoliazioni delle campagne, diffuse ovunque l’allevamento brado dei suini.
Per tutto il millennio medievale infatti le mandrie di maiali venivano allevati in stato di semilibertà nei boschi. Questa forma di allevamento era talmente importante che i boschi venivano “misurati” in base al numero di maiali che potevano nutrire. Le piante tipiche della foresta planiziale, faggi e querce in particolare, davano abbondante cibo, faggiole, ghiande e corniole, alle numerose mandrie suine. Molti documenti ci mostrano il guardiano dei porci battere con un bastone un faggio o, più frequentemente una quercia, per farne cadere i frutti tra le golose grife delle mandrie.
Altro indizio dell’eccezionale importanza dell’allevamento del maiale, sono gli statuti che regolano la figura giuridica del porcaro. A partire dal longobardo editto di Rotari fino alle leggi comunali e signorili, il porcaro è una figura prevalente e tutelata che emerge dalla massa dei servi addetti ad altri lavori agricoli, tanto che la sua uccisione o il suo ferimento comporta pene e ammende ben superiori rispetto ad altri lavoranti.
I maiali del Medioevo erano però ben diversi da quelli attuali. Erano piccoli, magri, snelli, abituati alla vita dei boschi e incrociati con i cugini selvatici; cinghiali. Dai documenti iconografici emergono numerosissime razze dai mantelli rossi, neri, bianchi, maculati o cintati. Da allora in poi il fido suino non ha mai smesso, fino a tempi recentissimi, di allietare e di rendere meno miserevole la povera mensa del contadino.

UN SANTO IN PARADISO

Dal Medioevo ha origine la leggenda, tenacemente diffusa fino a tempi recentissimi, che associa il maiale a Sant’Antonio abate.
Il greco – egiziano Antonio, nato verso la metà del III secolo D.C. e morto centenario, è una delle più grandi figure di eremita del cristianesimo primitivo a forte connotazione ascetica. Vissuto per decenni tra isolamento e privazioni nel deserto tra mar Rosso e mar Morto ( la mitica Tebaide) , ha dovuto subire le celebri “tentazioni” del maligno che spesso gli artisti medievali rappresentavano sotto le spoglie di un maiale, in questo caso simbolo dei vizi.
Ma la duplicità del nostro animale è ben presente nell’iconografia del santo, sempre accompagnato da un pacifico e benevolo porcello. L’origine dell’iconografia e dello straordinario successo di Antonio come protettore degli animali, e dei maiali in particolare, risale al secolo XI quando una forte epidemia di ergotismo( grave intossicazione alimentare dovuta ad una muffa, Claviceps purpurea, che contamina i cereali.) venne curata con lardo e provocò guarigioni miracolose proprio nei pressi di alcune reliquie del santo nella Francia meridionale. Da allora, grazie ad un’abile azione “pubblicitaria” dell’ordine degli antonini, il santo divenne il protettore invocato per ogni genere di infiammazione grave. Oltre all’ergotismo, l’erpes zooster (appunto “fuoco di S. Antonio), la sifilide e poi la peste.
Dai bruciori delle malattie, agli incendi, al fuoco infernale, il passo è breve ed il santo venne sempre più invocato per la salvezza dell’anima , oltre che per la guarigione del corpo. L’associazione col maiale ne ha fatto uno dei santi più popolari e in tutte le stalle fino a pochi decenni fa si poteva notare l’immagine dell’eremita barbuto appoggiato al suo bastone con campanella e accompagnato dal fedele porcello.
Questa popolarità ha dato origine ad un gran numero di leggende sul santo e sul suo accompagnatore suino. Racconti che venivano narrati la notte del 17 gennaio, festa del santo, attorno al falò beneaugurale che ne bruciava “la barba”.
La straordinaria fortuna del legame S. Antonio – maiale ha permesso all’ordine degli antonini di avere, fino a ‘700 avanzato, deroghe alle sempre più restrittive norme che proibivano la circolazione dei maiali nelle strade cittadine. I “maiali di S. Antonio” con la loro campanella erano liberi di scorrazzare nelle strade di città e villaggi e venivano nutriti dalla devota carità popolare , per essere poi consegnati in autunno ai conventi degli antonini per il rito sacrificale della macellazione e la benedizione del lardo, usato poi nella cura delle infiammazioni.

DUPLICITA’ DEL PORCO

“Porcus sive spurcus”. Riconducendolo ad una etimologia improbabile i moralisti medievali associavano il vizio col rotolarsi del maiale nel fango dei propri escrementi. In realtà sarebbe un animale pulitissimo se avesse a disposizione abbondante acqua corrente. In quanto non può sudare il porcello cerca di refrigerarsi come può e in mancanza d’acqua si rotola in quanto di più fresco trova, appunto il fango o le proprie deiezioni. Ma le spiegazioni razionali non intaccano minimamente il simbolico.
Ed appunto nella complessa simbologia del porco si riflette il legame strettissimo che da millenni l’uomo ha con la razza suina.
Ha spesso rappresentato ignoranza, ingordigia, egoismo, lussuria.
Nell’antico Egitto i porcari non potevano entrare nei templi e potevano sposarsi solo tra loro, come una casta esclusa e reietta.
Superfluo ricordare la pregiudiziale mosaica in quanto animale che ha si la zampa fessa, ma non rumina. Gli storici tendono ad interpretarla come mezzo di netta separazione dagli idolatri Galilei e Filistei, noti allevatori di porci. Ma ancora una volta il razionalismo probabilmente non coglie tutta la portata simbolica di una proibizione rimasta intatta nella millenaria storia del popolo eletto.
Così come non soddisfa del tutto la “razionale” spiegazione della proibizione islamica col fatto che i suini non sarebbero adatti alla vita nomade.
Tornando all’antichità, Circe trasformava gli uomini in porci dopo averli lusingati con la sua bellezza.
Col cristianesimo il maiale diventa il simbolo del male e una delle rappresentazioni del demonio. Nel vangelo sembrano prevalere riferimenti negativi: dal “dare le perle ai porci” ai demoni che scacciati dal corpo umano vengono trasposti in quello di una mandria di porci che precipita nel burrone, fino al figliol prodigo che sconta i suoi peccati di egoismo, superbia e lussuria facendo da guardiano ai porci. Ma S. Antonio riabilita il nostro animale.
Anche nella mitologia classica si trovano aspetti positivi. Enea termina il suo girovagare quando incontra una scrofa con trenta porcellini. Ulisse finalmente tornato ad Itaca incontra per primo il porcaro Eumeo ed insieme sacrificano un suino.
Maiale come casa dunque, rifugio caldo e sicuro, come nella mitologia cinese.
Dunque nulla di lineare, di “chiaro e distinto”, ma i grovigli dell’immaginazione, dell’inconscio, del simbolo e della magia. Forse frutto della cattiva coscienza dell’uomo che dal porco trae enormi piaceri e quindi deve pagare lo scotto del senso di colpa di chi tutto prende senza nulla , o quasi, dare.

NOMINA SUNT NUMINA

Le parole sono rivelatrici di entità superiori. E di sensi e di significati complessi. Partiamo quindi dalle parole per cercare di comprendere quest’animale che ci è sempre stato così vicino e vitale alla nostra sopravvivenza. Lo abbiamo mal ripagato, proprio a partire dalle parole.
“Maiale” è un epiteto che pochi gradiscono. E’ ritenuto ingiurioso, offensivo, molto più di altri epiteti animaleschi e rivelatore della nostra indiscutibile e “vergognosa” vicinanza al nobile suino.
“Porco” è caricato di valenza ancor più negativa, di passioni inconfessabili, di frequentazioni licenziose o decisamente illecite, di piaceri disdicevoli e nefandi, di perversa immoralità. Se usato come aggettivo connota della più grave negatività il sostantivo al quale si riferisce, fino agli estremi insulti della blasfemia.
Ancor peggio se analizziamo la versione femminile. Accanto all’ingenuo ed innocuo “scrofa”, troviamo il ben più pesante “troia”, dall’inequivocabilmente negativa connotazione sessuale. Un poco più morbida, quasi ammiccante la definizione di “porca”. Anche riferita alla progenitrice Eva più che un insulto sembra un intercalare di un monologo mentale, quasi una licenza poetica. Ma una “porcata” è veramente qualcosa di riprovevole.
Ripiombiamo comunque nel greve con “troiaio” e “troiata” anche se con connotazione più bonaria rispetto al vocabolo primitivo. Ritorniamo alla leggerezza e quasi gaiezza con “porcella” e “porcellina” quasi che diminutivi e vezzeggiativi rendano più leggiadro il senso ultimo attribuito al vocabolo.
Raggiungiamo infine le sottigliezze della retorica con l’iterativo “porca troia”.
Maggior tranquillità sembrano annunciare i “porci comodi” ma con borghese riprovazione per una vita non economicamente attiva e dedicata ai piaceri.
Nel dialetto resta la sottigliezza che distingue il “nimal” riservato esclusivamente al suino, dal più pesante ” béstia” che accomuna tutti gli altri animali. “Loegia” è accomunato all’italiano nei significati poco edificanti per una donna.
Questo leggiadro florilegio vale per l’intera babele delle lingue. Valga per tutte l’insultante “pig” che gli inglesi affibbiano al poliziotto
Nominiamo ciò che amiamo, nominiamo ciò che temiamo. Dare un nome ci rassicura e avvicina ciò che appare estraneo. I molti sensi che abbiamo costruito sulle parole che denominano il “sus scrofa domesticus” sono li per dirci che questo animale ci è molto vicino, è parte della nostra storia.
Le diavolerie dell’ingegneria genetica con i suini – pezzi di ricambio per i nostri organi malandati, sono una conferma che torna a rassicurarci ed inquietarci.

RAZZE E STORIA

Dalla classificazione settecentesca di Linneo, sappiamo che il nostro maiale è catalogato come ” sus scrofa domesticus”. Ma nella sua storia plurimillenaria (ossa di maiali risalenti al VII millennio A.C. sono stati ritrovate in grotte del medio oriente) ha messo su una numerosa famiglia di cugini vicini e lontani. Fino a tutto il 1800 c’erano miriadi di razze dalle forme e dimensioni variabili, con o senza pelo, dal colore del mantello che variava dal nero al rosso, dal rosa al cenere, dal bianco al bluastro, con tutta una serie di incroci maculati, striati e cintati.
Ogni zona aveva la sua razza tipica, con caratteristiche fisiche e merceologiche ben identificate. Forse è qui l’origine della enorme differenziazione per forme, dimensioni, uso di parti del corpo dell’animale, impasto e mescolanza con altri elementi, dei vari salumi ed insaccati che sono presenti in tutta Europa ed in particolare in Italia. In Lombardia erano diffusi i porci neri, ma non ovunque, tra Brescia e Mantova era diffusa una razza bianca. Nel giro di pochi chilometri tra Emilia e Romagna, si passava dalla nera di Parma dal notevole peso e dalle carni sode, alla razza di Bologna più setolosa, alla cintata tra Reggio e Modena.
Celeberrima dalle iconografie medievali la cinta senese, quasi scomparsa pochi anni fa ed ora fortunatamente recuperata ed allevata. In Piemonte e Sardegna prevalevano le razze bianche, mentre nel regno di Napoli una particolarmente pregiata razza nera. Questo grande bailamme di razze, incroci, miscugli e varietà caratterizzava qualsiasi specie animale e vegetale fino all’ottocento e caratterizzava una zona quanto il suo paesaggio. Oggi ne paventiamo la scomparsa e la rimpiangiamo con l’asettico nome di biodiversità. L’inizio della fine è nelle prime ricerche di genetica e nella passione, tutta inglese, per la selezione delle razze animali.
Proprio ad un inglese, lord Malmesbury, ambasciatore presso i Borbone di Napoli, si deve uno dei primi grandi successi tra incroci di razze diverse. Il nobile, da gran buongustaio, rimaneva estasiato dai sapori intensi degli insaccati che assaggiava presso i nobili napoletani. Decise quindi di incrociare la razza locale, la nera casertana o pelatella per l’assenza di setole, con il più robusto ma insapore maiale dello Yorkshire. Il risultato fu talmente straordinario che gli inglesi provarono una serie impressionante di incroci. Anche i principi reali si dedicarono all’impresa, creando la varietà windsor. Da allora in poi l’estrema facilità con cui si potevano selezionare maiali con caratteristiche ben precise ne ha addirittura influenzato la classificazione; maiali da coscia o da lardo o da insaccati ecc…
Arriviamo quindi ai nostri tempi dove pochissime razze dominano il mercato mondiale, a parte poche pregevoli eccezioni recuperate. La diversità non sta più nelle razze quanto nelle forme di allevamento e soprattutto di alimentazione.

IL PORCO DI PIANURA

Con la progressiva scomparsa, a partire dal basso Medioevo, della foresta planiziale, l’allevamento brado venne sempre meno praticato e confinato in aree sempre più marginali, soprattutto nelle zone più difficili allo sfruttamento agricolo; lungo fiumi e torrenti e nelle brughiere. Fino a tutto il ‘700 comunque l’allevamento brado rimase una voce di una certa importanza nell’economia agricola della pianura.
Con la rivoluzione agricola della seconda metà del ‘700 che investe dapprima la pianura lombarda e poi quella emiliana e piemontese, le cose cambiano anche per il maiale. L’allevamento passa in maniera definitiva dai boschi alla stalla. La stabulazione con razze “inglesi” di colore roseo e con poche setole, è un fatto ormai accertato già nella prima metà del XIX secolo.
Paradossalmente questo profondo cambiamento è conseguenza di un altro tipo di allevamento, quello bovino. Nelle cascine, fattorie o masserie, il circolo virtuoso tra foraggio – mucche da latte – trasformazione casearia e letame, permette il grande impulso agricolo alla base di ogni sviluppo moderno. Proprio gli scarti delle aziende casearie , il siero o latticello, diventa il nutrimento base col quale ingrassare l’onnivoro suino. Accanto ai caseifici sorgono moderne porcilaie che genialmente fanno di un prodotto di scarto una fonte di ingrasso. Qualsiasi altro tipo di scarto viene trasformato in grasso dall’adattabile suino. Quelli della molitura di grano e granoturco, della pilatura del riso, della spremitura di semi oleosi della fermentazione della birra ecc… ingrassavano schiere di maiali. Un vero animale “ecologico” che “ricicla” tutto. Da allora è indissolubile il legame tra agricoltura padana ed allevamento suino
Non cambia solo l’allevamento padronale in stalle più o meno grandi con decine o centinaia di animali. Anche il contadino singolo che ha sempre tratto sostentamento per la propria famiglia dall’allevamento di un singolo porco che forniva la parte preponderante, se non unica, di proteine nobili e lipidi alla sua magra dieta, cambia il sistema di allevamento. Anche il piccolo contadino proprietario di un minuscolo appezzamento o un bracciante dipendente da un grande proprietario terriero, allevano il proprio porco di razza “inglese” e col sistema della stabulazione. Anche in questi casi qualsiasi tipo di scarto commestibile serviva ad ingrassare l’animale.
Sia di grande allevamento che del piccolo contadino comunque, il maiale dell’ottocento e del primo novecento è si profondamente diverso dai suoi antenati, ma anche dai suoi pronipoti attuali.
In una società povera il grasso è simbolo di benessere ed al maiale proprio questo è sempre stato chiesto; il grasso. Gli animali erano molto pesanti, fino a due quintali, e la percentuale di lipidi molto elevata. L’alimentazione era molto abbondante e si calcolavano 6 o 7 chili di cereali per un chilogrammo di carne suina. I cambiamenti sociali ed economici degli ultimi decenni hanno profondamente influenzato l’alimentazione, spesso con irrazionali manie dietetiche. Come ai tempi di S. Antonio il povero animale è tornato ad essere simbolo del male, non più sotto le spoglie di Belzebù, ma di colesterolo e trigliceridi.
Come sempre il maiale si è adattato, si sono migliorate le razze e razionalizzata l’alimentazione. Ora bastano 2,5 – 3 chilogrammi di cereale per uno di carne suina. Questa poi ha contenuti lipidici e di colesterolo enormemente più bassi di un tempo e paragonabili al più asettico ed insapore dei polli.
Per fortuna restano differenze nella qualità e nel sapore delle carni in base al tipo di allevamento, e la protezione legislativa dei ben più pregiati maiali nazionali rispetto agli scialpi e “tecnologici” danesi ed olandesi sarà la sola garanzia del sublime gusto degli insaccati nazionali a difesa dell’omologazione comunitaria in nome di presunte norme igieniche.

MACELLAZIONE

Da tempo immemorabile l’uccisione del maiale caratterizza i mesi dal tardo autunno al pieno inverno. Era un rito sacrificale ed una festa per tutta la comunità che vedeva assicurata la razione alimentare fino ai raccolti primaverili. Nell’antica Roma durante le feste saturnali che a metà dicembre celebravano la fine dei lavori agricoli, si sacrificava un grosso porco al dio Saturno.
In tutti i calendari medievali, che ad ogni mese associano un lavoro agricolo, dicembre è rappresentato con l’uccisione del porco.
Le tecniche di uccisione erano poche ed elementari, ma richiedevano decisione e mano ferma. A volte l’animale veniva stordito con un martello o un’ascia. Poi un colpo al cuore tra le costole sotto la zampa anteriore. Più diffuso lo scannamento che recideva la vena iugulare. Solo in poche zone ristrette stordimento ed uccisione coincidevano con un pesante punteruolo che spaccava la fronte dell’animale.
La tecnica della sgozzatura resta la più diffusa soprattutto perché permetteva di raccogliere il sangue dell’animale. E’ proverbiale che del porco non si butta nulla e col sangue si facevano dolci ed insaccati. La macellazione è una festa ed un rito collettivo al quale partecipa tutta la famiglia e la comunità contadina. Subito dopo l’uccisione l’animale veniva introdotto in mastelli d’acqua bollente preparati dalle donne, per lavarlo e ammorbidire le setole che poi venivano raschiate con appositi coltelli. Meno diffuso era il sistema “cum focho”, cioè la bruciatura delle setole con paglia accesa. Terminate queste operazioni l’animale veniva appeso per le zampe posteriori a due ganci o ad una scala e sventrato partendo dall’inguine. Si estraevano le interiora, rognoni, fegato, cuore, polmone, trippe e cervello, che dovevano essere consumate in fretta per la facile deteriorabilità. Le donne procedevano al lavaggio e alla salagione degli intestini che servivano agli insaccati, anche se si utilizzavano abbondantemente intestini bovini ed equini. Si procedeva alla divisione dell’animale in due parti, le mezzene, una delle quali poteva aver attaccata la testa, anche se ci sono tradizioni diverse da zona a zona. Spesso la testa, simbolo dell’animale e trofeo, spettava al signore o al potente locale. Solo le interiora venivano consumate fresche ed erano il punto culminante della festa dell’uccisione, quando finalmente la famiglia contadina poteva saziare la fame atavica di carne e grassi.
Tutte le altre parti dell’animale venivano conservate ed erano la dispensa carnea per lunghi mesi.
Le due tecniche più usate erano la salatura e l’affumicamento. Il sale non solo conserva perfettamente la carne, ma trasformando i nitrati in nitriti, fissa la mioglobina che dà alla carne il caratteristico colore rosa scuro.
Fin dall’antichità si hanno notizie della salagione di mezzene intere o di parti singole, in particolare le cosce per la produzione di prosciutto. L’uccisione del porco è una festa attesa tutto l’anno che rinsalda i legami di comunità. I giochi e gli scherzi fanno parte pienamente di questi legami. Ai bambini veniva legato alla mano un minuscolo salamino appena insaccato e ci giocavano tutto il giorno come oggi con un palloncino gonfiato. A questo proposito l’elastica e tonda vescica dell’animale serviva perfettamente allo scopo, almeno fino al suo uso per insaccare.
Nel bergamasco dopo l’uccisione, si mandava qualche ragazzetto in giro per le cascine a richiedere uno strumento assurdo ma dichiarato indispensabile, lo “sguraoregie”. Al povero ragazzo dopo aver girato alcune cascine veniva rifilato un sacco contenente un pesante pietrone con la raccomandazione di non posarlo mai a terra per l’estrema delicatezza dello strumento. Tornato a casa stremato si svelava lo scherzo e lo si prendeva bonariamente in giro magari con l’offerta riparatrice di un pezzo di interiora cotte e di un bicchiere di vino.
Nel Veneto si ripeteva lo stesso rituale mandando a chiedere “lo stampo del salame”.
Il gioco e lo scherzo accentuano la ritualità di quello che era uno dei momenti essenziali dell’anno: l’uccisione del porco.

I GRASSI

Il maiale è il simbolo stesso del grasso ed è sempre stato allevato proprio perché ne fornisse in abbondanza.
Nei nostri tempi di terrorismo dietetico e di insulsi sacrifici alla religione della magrezza è bene ricordarne i golosi meriti.
Grasso suino per eccellenza è il lardo cioè lo strato adiposo più o meno ampio sotto la pelle o cotenna. Veniva consumato salato ed aromatizzato in due metà , in alcuni casi veniva appeso all’uscio di casa. Il lardo è bianco, rosato, sodo e morbido al tempo stesso e pronto a sciogliersi al calore delle cotture o della bocca. Era tanto apprezzato che rientra in tutti i contratti di pagamento, dai legionari romani, agli artigiani medievali, ai carrettieri dell’800.
Il lardo trasformava le minestre di verdure in gustose leccornie, pezzi di pane in straordinari stuzzichini. I non più giovanissimi ricorderanno, spero con nostalgia, il battere del coltello sul tagliere per impastare il lardo con aglio e prezzemolo e preparare il condimento.
Infine il lardo era elemento fondamentale di una prelibatezza gastronomica ormai scomparsa; il cervellato milanese. Il cervellato è così intimamente legato alla gastronomia suina milanese che in dialetto il salumaio è detto “cervelé” ( e non l’improbabile “salumé” dei negozi alla moda). Pur con infinite varianti è stato vanto gastronomico di Milano dal medioevo all’800.
Il secondo grasso per importanza è la sugna o mesenterio, che ricopre gli intestini. Fuso e filtrato diventa lo strutto, universalmente usato per condire e per conservare la carne.
Entrambi i grassi oltre ad usi alimentari avevano anche quelli medicamentosi, per lenire dolori reumatici e infiammatori. La sugna veniva anche usata per ungere gli assi delle ruote dei carri o i cardini delle porte.
Anche l’etimologia, per quanto dubbia, sembra attribuire al lardo valore centrale nei legami familiari. Lardo da “laridum”, gli dei lari protettori della casa.
Ultimo grasso sono i ciccioli che sono il resto solido della fusione della sugna. Usati da sempre quasi come caramelle per la particolare sfumatura dolciastra del grasso caramellato, restano ora diffuse in poche aree,  sia nella versione di pagnotte appiattite che in quella friabile.

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