baccalariaSaperi e Saporivigilia di natale

Baccalà o stoccafisso, a natale ‘ntavola c’addà stà.

Il baccalà è un merluzzo conservato per salagione, mentro lo stoccafisso è merluzzo conservato per essicazione. Provengono entrambi dai paesi nordici, frutto della pesca nell’oceano pacifico del Gadus macrocephalus e del Gadus morhua pescato nell’Oceano Atlantico settentrionale.

stoccafisso
baccalà

Tanto il baccalà quanto lo stoccafisso, presenti in molte cucine popolari,  per essere utilizzabili hanno bisogno di una lunga immersione in acqua fredda, che provvede ad eliminare il sale in eccesso per il primo e a restituire ai tessuti l’originale consistenza per il secondo.

I migliori testimonial del merluzzo sono i Vichinghi, i grandi navigatori provenienti dal nord della Norvegia. Dalle loro parti, al largo delle isole Lofoten, di merluzzi ce  n’erano a iosa: i Vichinghi li pescavano, e li facevano essiccare all’aria aperta. Ne veniva fuori un alimento perfetto per le loro esigenze: lo stoccafisso.

Nutriente, leggero (poca acqua, poco peso) di lunga conservazione (perché disidratato, come le mummie). Per i loro interminabili viaggi per mare, verso la Groenlandia, l’America o vattelapesca, non c’era di meglio. Un bel giorno però i Vichinghi persero il monopolio della pesca del merluzzo. Per colpa delle balene. Le popolazioni basche del Golfo di Guascogna (tra la Spagna settentrionale e la Francia) davano loro la caccia, e in effetti le cacciarono da lì: scappando verso nord, con i baschi alle calcagna, ben decisi a non perdersi quelle montagne di risorse alimentari, le balene si portarono nell’Atlantico settentrionale, fin nel mezzo dei Grand Banks: dei banchi di merluzzo così fitti, che per catturarli bastava affondarci dentro le mani. Una volta scoperti questi giacimenti di merluzzo, i baschi ci tornavano tutte le volte: ma per conservarlo, invece di esporlo all’aria (che in Spagna è meno fredda che in Norvegia!) all’uso dei Vichinghi, lo mettevano sotto sale: abitudine che avevano preso con le balene. Nasceva così il baccalà.

I vichinghi impararono dai baschi questo nuovo sistema di conservazione del merluzzo, e ne estesero l’impiego: oltre che come cibo, sulle loro navi il baccalà fungeva anche da barometro. Dopo averlo messo sotto sale, lo appendevano a bordo con delle corde. Quando il baccalà cominciava a gocciolare, voleva dire che era in arrivo una tempesta: la maggiore umidità dell’aria faceva infatti sciogliere il sale. Oggi i barometri saranno magari più sensibili, ma non sono commestibili come quelli di una volta. I Vichinghi portarono il baccalà in molte parti del mondo, ma solo quando finì in mano agli americani la b di baccalà si coniugò davvero con la b bi business.

Nel 1620 i Pilgrim Fathers, i Padri Pellegrini, protestanti in fuga dall’Inghilterra, sbarcarono con la Mayflower su di un promontorio del nuovo mondo che aveva un nome profetico: Cape Cod. Che non vuol dire altro che “Capo Merluzzo”. Questo nome ci fa capire di quale pesce fossero pieni quei mari. Non capendo un’acca di agricoltura, i Padri Pellegrini si diedero alla pesca. La cosa dovette funzionare, se già pochi decenni più tardi le navi degli “americani” partivano dal New England stivate e stipate di baccalà, dirette ai Caraibi, a Capo Verde e alle Canarie, con destinazione finale Portogallo.Il baccalà veniva scambiato con prodotti coloniali (zucchero, melassa, ecc.) e anche con schiavi, che venivano trasportati in America per lavorare nelle piantagioni.

Arrivati là, gli schiavi venivano nutriti con la stessa moneta con cui erano stati comprati: il baccalà, appunto. Il desiderio degli Inglesi di inserirsi in questo lucroso commercio provocava continui scontri fra le navi di Sua Maestà Britannica e gli schooner, le veloci barche americane impiegate per la pesca del merluzzo, che per meglio difendersi si erano dotate di cannoni. La guerra del baccalà contribuì insomma a inasprire il clima già teso tra l’Inghilterra e la sua ex colonia d’oltremare, consolidando quell’ostilità che avrebbe condotto, nel 1776, alla dichiarazione d’indipendenza americana.

Sulle banconote da un dollaro, oltre alla faccia di Lincoln dovrebbe perciò comparire un bel merluzzo, magari di profilo. Come quello tuttora presente nello stemma municipale di Boston. Se non una banconota, il baccalà meriterebbe per lo meno un francobollo commemorativo: nei secoli ha salvato la vita a tanta gente, che altrimenti sarebbe morta letteralmente di fame. Ancora nell’ottocento, la classe operaia inglese tirava avanti a forza di “fish and chips”, un binomio in cui il fish era (ed è ancora) il merluzzo, che si coniugava con le chips (patate) per il semplice fatto di essere cheap: economico. Il mercato inglese assorbe 170.000 tonnellate di baccalà all’anno, ed è al primo posto nel mondo. Sarà per questo che gli inglesi, quando si tratta di baccalà, non si rivelano mai dolci di sale. Per citare soltanto degli episodi recenti, nel 1973 fregate e cannoniere inglesi ed islandesi si sono fronteggiate a muso duro – e a colpi d’artiglieria – per il controllo dei grossi banchi di merluzzo che si trovano nei mari tra i due paesi.

Nel 94 i britannici hanno accusato i pescherecci spagnoli di eccessiva intraprendenza nella pesca del merluzzo nelle acque irlandesi. Insomma, è dal 1600 che gli inglesi sul merluzzo tengono gli occhi aperti. Fanno bene: chi dorme non piglia chi piglia pesci.

In Campania  il baccalà ha una tradizione gastronomica ben radicata. I campani  sono i più forti consumatori di baccalà d’Italia, paese tra i maggiori consumatori nel mondo. A conferma di questa passione per il baccalà, che dura tutto l’anno, con un picco significativo a Natale, le più grandi aziende italiane di importazione e di conservazione del baccalà si trovano in Campania. La storia dell’amore tra Napoli e il baccalà risale almeno al 1500. E ancora una volta, si vede come i napoletani siano un popolo capace di trovare soluzioni. A quel tempo, la Chiesa della controriforma imponeva di “mangiar magro”: aveva cioè proibito il consumo di carne nei giorni comandati. Di conseguenza, la domanda di pesce era molto cresciuta, ed esigeva una risposta che il pesce locale non era in grado di dare. Se a questo si aggiunge che intorno a Napoli, grazie alle sorgenti del fiume Sebèto, c’era acqua in abbondanza per dissalare il baccalà, e – al contrario – per reidratare lo stoccafisso, si capisce come ricorrere ai figli del merluzzo sia stato un bel modo di cavarsela. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e sopra stoccafisso e baccalà, che entrano oggi in molte raffinate ricette della cucina napoletana.

“Femmene, cane e baccalà, p’essere bbone s’anna mazzià”, si dice a Napoli.  Per il basso prezzo, il baccalà e lo stoccafisso, erano un tempo considerati “il pesce dei poveri”. Un po’ come il pesce azzurro. Che fosse per amore autentico, o semplicemente per la capacità di amare quel che ci si può permettere (uno dei segreti della felicità), di baccalà a Napoli se ne mangiava davvero tanto, e tutto l’anno; dunque non solo a Natale. Poi il consumo si ridusse del 70%, a favore della carne, status symbol di un raggiunto, o desiderato, benessere. Baccalà e stock sono recentemente tornati a galla: la moderna scienza dell’alimentazione ha conferito dignità ad un comportamento alimentare che i napoletani avevano adottato per necessità. Il risultato del match con la carne, che sembrava perduto, si è infatti praticamente ribaltato: pari per le proteine (18% per tutt’e due), lieve vantaggio del baccalà per gli zuccheri (ne contiene di meno), e nuovo pari per quanto riguarda i grassi (0,3% per tutti e due). Ma quest’ultimo è un pareggio fittizio: i grassi del baccalà non sono gli stessi della carne. Il merluzzo contiene infatti dei “grassi insaturi”: i famosi omega 3, detti anche “grassi buoni”, perché ripuliscono le arterie.

In onore dello stock è nato addirittura un centro studi, la ”Accademia dello Stoccafisso Reale di Norvegia”, che si propone, per statuto,  di informare i consumatori delle grandi qualità dello stoccafisso, e di riportare alla luce le antiche ricette che lo prevedevano: la preparazione della coda (un segreto della cucina flegrea), e la pancetta di stoccafisso con patate. Senza dimenticare i tanti modi di cucinare il coroniello, la pancia dello stoccafisso tagliata a quadrati, unanimemente considerata la sua parte migliore.

Quanto al baccalà, a Napoli è molto richiesto il mussillo: il filetto di baccalà, la parte dorsale del merluzzo. Il termine “mussillo” dipende dal fatto che il baccalà così lavorato assume l’aspetto di un piccolo “musso” (muso): dà l’idea di due labbra sottili. Ad onte dell’ottima opinione che i napoletani (e i campani in genere) hanno del baccalà, sviluppata così “a naso”, (a nasello) anche per via dell’intenso odore che sprigiona, se a Napoli dovessero darvi del baccalà, accettatelo con piacere solo se è in un piatto: se invece vi viene detto, sappiate che non è un complimento.“I’ che baccalà!” si esclama quando si incontra un individuo imbranato, ingessato, privo di spontaneità e di verve: qualità che a Napoli avercele è normale, esserne privi un delitto.

Il “baccalà”, dove lo metti, là lo trovi: è privo di guizzi, e di spirito d’iniziativa. Una caratteristica psicologica che non piace a nessuno, anche se tutto sommato andrebbe apprezzata: il “baccalà” è in fondo un tipo affidabile, dal quale non ci si devono aspettare dei colpi di testa, o dei voltafaccia. Proprio come il baccalà da cui prende il nome: un alimento su cui si può contare sempre, perché si conserva a lungo, e non si deteriora. Un cibo che magari non riserverà particolari sorprese positive, ma nemmeno negative. Siamo d’accordo: non è particolarmente pregiato, non ha un bel profumo, ma sul baccalà (e su di un “baccalà”) si può sempre contare.

E per chiudere la mia poesia dedicata al baccalà

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