CarnevalateSaperi e Sapori

La cena di Trimalcione, racconto di un convivio del I secolo d.C. tipico delle comunità campane.

La Cena Trimalchionis è un lungo episodio del Satyricon di Petronio che, a differenza della maggior parte del romanzo, tramandatoci in modo soltanto parziale, è giunto integro fino a noi. Nella ricostruzione moderna del Satyricon, l’episodio occupa il centro della narrazione e racconta la cena-spettacolo a casa del liberto Trimalchione (o Trimalcione) cui assistono, più che partecipare, i tre protagonisti dell’opera, Encolpio, Ascilto e Gitone. Il racconto della cena offre uno spaccato (grottesco ed efficacissimo) della società del tempo. I personaggi che vi partecipano sono infatti la rappresentazione, a volte realistica a volte caricaturale, di alcune tipologie umane che dovevano animare la vita delle città campane nel I secolo d.C.

Toccati da un gesto di tale generosità , stavamo entrando in sala da pranzo, quando ci si para davanti quello stesso servo per il quale eravamo intervenuti e, con noi che lo guardiamo allibiti, ci sommerge letteralmente di baci per ringraziarci del nostro buon cuore e aggiunge: «Presto saprete chi avete aiutato: sono io che ho l’incarico di versare il vino del padrone».

Finalmente ci sediamo a tavola, mentre degli schiavi alessandrini ci versano sulle mani dell’acqua ghiacciata, subito rimpiazzati da altri che, inginocchiati ai nostri piedi, cominciano a tagliarci le pellicine delle unghie con una precisione incredibile. E mentre erano impegnati in questo ingrato servizio non stavano mica a bocca chiusa, ma accompagnavano il tutto cantando. Siccome volevo capire se tutta la servitù avesse quella caratteristica, chiedo che mi portino da bere. In men che non si dica uno schiavetto mi serve emettendo un gorgheggio non meno stridulo, e così tutti gli altri se solo si ordinava qualcosa. Al punto che più che a pranzo in casa di un padre di famiglia, sembrava di essere in mezzo a una compagnia di mimi.

Nel frattempo ci viene servito un antipasto mica male: tutti avevano infatti già preso posto, salvo il solo Trimalcione cui, in virtù di un’usanza del tutto nuova, era stato riservato quello d’onore. Al centro del piatto di portata troneggiava un asinello in bronzo di Corinto, con sopra un basto che da una parte era pieno di olive nere e dall’altra di chiare. Sulla groppa dell’animale c’erano due piatti sui cui orli era stato inciso il nome di Trimalcione e il peso dell’argento. In aggiunta c’erano poi dei ponticelli saldati insieme che sorreggevano dei ghiri conditi con miele e salsa di papavero. E ancora c’erano delle salsicce che friggevano sopra una graticola d’argento e, sotto la graticola, prugne di Siria con chicchi di melagrana.

Eravamo nel pieno di quelle delizie, quand’ecco che Trimalcione in persona fa il suo ingresso trasportato a suon di musica, sdraiato su soffici cuscini, e noi scoppiamo a ridere perché la cosa ci coglie alla sprovvista. Gli spuntava la crapa pelata da sotto un mantello rosso fuoco e intorno al collo già imbacuccato per bene si era avvolto un foulard orlato di porpora con frange svolazzanti da una parte e dall’altra. Al mignolo della mano sinistra portava un enorme anello dorato, mentre nell’ultima falange dell’anulare ne aveva uno più piccolo che secondo me era tutto d’oro ma con saldate sopra delle scaglie di ferro fatte a forma di stella. E per non limitarsi a sfoggiare soltanto quei preziosi, si scopre il bicipite destro su cui facevano un gran figurone un bracciale d’oro e un cerchietto d’avorio chiuso da una lamina piena di luce.

Dopo essersi dato una ripassata tra i denti con uno stuzzicadenti d’argento, dice: «Amici, ad essere sincero non mi andava ancora di venire a tavola, ma per non farvi cominciare il pranzo in ritardo per la mia assenza, ho preferito sacrificare i comodi miei. Ciò nonostante permettetemi di finire la partita». Infatti gli veniva dietro un ragazzino con in mano una scacchiera di radica e dei dadi di cristallo, e io notai un particolare che era il colmo della raffinatezza: al posto delle pedine bianche e nere aveva infatti delle monete d’oro e d’argento. E mentre lui continuava a giocare bestemmiando come un perfetto portuale, e noi eravamo ancora all’antipasto, viene portato un vassoio con sopra un cestino contenente una gallina di legno che aveva le ali aperte a cerchio, come di solito fanno quando covano le uova. Subito si avvicinano due servi che, sul sottofondo assordante della musica, cominciano a frugare in mezzo alla paglia e tirano fuori una serie di uova di pavone che distribuiscono tra i commensali. Di fronte al colpo di scena, Trimalcione si volta e ci comunica: «Amici, ho fatto mettere sotto la gallina delle uova di pavone ma, per dio, mi sa che ci sia già dentro il pulcino. In ogni modo vediamo un po’ se si possono ancora inghiottire». Noi allora prendiamo dei cucchiaini che non pesavano meno di mezza libbra e rompiamo quelle uova ricoperte con un impasto di farina. Io stavo quasi per buttar via il mio perché mi sembrava che dentro ci fosse già il pulcino. Ma poi, quando sento un habitué di quelle serate dire “mi sa che qui dentro c’è qualcosa di buono”, frugo un po’ con la mano dentro al guscio e ci trovo un beccaccino da favola immerso in salsa piccante di tuorlo.

Nel frattempo Trimalcione aveva finito la partita e si era fatto servire ogni cosa, invitando a gran voce chi di noi avesse voluto prendere ancora del vino al miele, quando all’improvviso ricomincia la musica a un preciso segnale e una squadra di servi porta via gli antipasti cantando in coro. Ma nel mezzo di quel caos, caso vuole che cada un piatto d’argento e che subito uno schiavetto lo raccatti: Trimalcione se ne accorge e ordina di schiaffeggiare il ragazzino e di ributtare a terra il piatto che finisce scopato via insieme a tutto il resto da un guardarobiere comparso immediatamente. Poi entrano in sala due capelloni etiopi con in mano dei piccoli otri uguali a quelli che usano allo stadio per spargere la sabbia, e ci versano del vino sulle mani. Di acqua infatti nemmeno a parlarne. Siccome facciamo un sacco di complimenti al padrone di casa per tutto quel lusso, lui dice: «A Marte piace il giusto. Per questo ho ordinato che a ciascuno venisse assegnato un tavolo personale. Ma anche perché questi schiavi puzzolenti ci soffino meno sul collo andando su e giù per la stanza».

Un attimo dopo arrivano delle anfore di cristallo scrupolosamente sigillate e con delle etichette incollate al collo con su scritto: «Falerno Opimiano di cent’anni». Mentre eravamo impegnati a leggere, Trimalcione batte le mani urlando: «Oddio, dunque il vino vive più a lungo di un pover’uomo. Ma allora scoliamocelo d’un fiato! Il vino è vita e questo è Opimiano puro. Ieri non ne ho offerto di così buono, eppure avevo a cena gente ben più di riguardo». Mentre noi tracanniamo e osserviamo con gli occhi sgranati tutto quel ben di dio, arriva un servo con uno scheletro d’argento costruito in maniera tale che lo snodo delle vertebre e delle giunture permetteva qualunque tipo di movimento. Dopo averlo buttato a più riprese sul tavolo facendogli assumere varie posizioni grazie alla struttura mobile, Trimalcione aggiunge: «Ahimè, miseri noi, che cosa da nulla è un pover’uomo. Noi tutti saremo così il giorno che l’Orco ci prende. Ma allora viviamo, finché godere possiamo».

A questo elogio funebre segue una portata inferiore all’attesa, ma capace di far spalancare gli occhi a tutti per la sua assoluta originalità. Era infatti una grossa teglia rotonda che aveva tutto intorno i segni dello zodiaco, sopra ciascuno dei quali il cuoco aveva piazzato una specialità appropriata al simbolo: sull’Ariete dei ceci di Arezzo; sul Toro un quarto di bue; sui Gemelli testicoli e rognoni; sul Cancro una corona; sul Leone fichi africani; sulla Vergine una vagina discrofa; sulla Libra una bilancia con una focaccia in un piatto e un polpettone nell’altro; sullo Scorpione un pesciolino di mare; sul Sagittario un gufo; sul Capricorno un’aragosta; sull’Acquario un’oca; sui Pesci due triglie. Al centro, poi, una zolla di terra strappata con tutta l’erba attaccata sosteneva un favo di miele. Uno schiavetto egiziano distribuiva pane caldo in giro prendendolo da un forno portatile d’argento…. e anche lui con una voce d’inferno attacca una tirata dal mimo.

Ma quando Trimalcione si accorge che quei cibi tanto ordinari non li abbiamo accolti con troppo slancio, dice: «Abbiate fiducia e pensiamo a mangiare: il meglio della cena è proprio questo».

A ruota arriva una grossa teglia sulla quale giganteggia un enorme cinghiale con in testa un berretto da liberto: alle sue zanne sono appesi due piccoli cestini di palma intrecciata, pieni uno di datteri freschi e l’altro di secchi. Tutto intorno c’erano dei maialini di pasta di mandorle che, essendo attaccati più o meno alle mammelle, facevano capire che si trattava di una femmina. Ce li regalano, da portarli poi via a fine cena. A tagliare il cinghiale non si presenta quel Trincia che aveva fatto le parti coi polli, ma un energumeno barbuto con le gambe fasciate e un mantello damascato sulle spalle. Impugnato un coltello da caccia, il tipo cala un colpo tremendo nel fianco del cinghiale e dallo squarcio ne esce uno stormo di tordi in volo. Ma lì c’erano già pronti gli uccellatori con tanto di canne, e in un battibaleno li riacciuffano mentre quelli svolazzano per la sala. Dopo aver ordinato di darne uno a ogni invitato, aggiunge: «Guardate un po’ che ghiande prelibate si pappava quel porco selvatico!». Due schiavetti afferrano i cestini che pendevano dalle zanne del cinghiale e distribuiscono agli invitati i datteri freschi e quelli secchi.

Nel frattempo, appartato com’ero nel mio cantuccio, io mi spremevo le meningi per capire perché mai quel cinghiale avesse in testa il berretto dei liberti. Dopo aver fatto le supposizioni più assurde, mi decido a interpellare di nuovo il mio vicino chiedendogli lumi sul problema che mi assilla. E lui mi fa: «Anche il tuo servo te lo può spiegare benissimo: non è mica un mistero, lo sanno tutti. Visto che gli invitati di ieri sera hanno rimandato indietro questo cinghiale perché scoppiavano di cibo, per questo oggi ritorna a tavola acconciato da liberto». Me la prendo con la mia stupidità e non gli domando più nulla per non dar l’impressione di essere uno che a tavola con gente per bene non c’è mai stato.

Dopo questa portata Trimalcione si alza per andare al cesso. E noi, non sentendoci più in soggezione per la sua ingombrante presenza, ci mettiamo a discutere delle cose di cui si parla a tavola. Dama, dopo essersi scolato un bel boccale di vino, rompe il ghiaccio dicendo: «Il giorno dura un istante. Non fai a tempo a voltarti, che è subito notte. Perciò non c’è niente di meglio che passare dal letto alla tavola. E poi abbiamo avuto un freddo del boia, che quasi non bastava il bagno per scaldarmi le ossa. Credetemi, una bella bibita calda è meglio di una coperta. Ne ho tirate giù un bel po’ e adesso sono giù ubriaco fradicio.Il vino mi ha dato alla testa».

Alla conversazione prende parte anche Seleuco dicendo: «Io non mi lavo mica tutti i giorni, perché il bagno è una cosa da lavandaie: l’acqua ha i denti e ogni giorno ti scola via un pezzo di cuore. Ma basta che mi faccia un bel bicchiere di vino al miele e al freddo gli dico di fottersi. E poi oggi il bagno non l’ho potuto fare perché sono andato a un funerale. Quel povero diavolo di Crisanto, un vero gentiluomo, se n’è andato e mi aveva fatto chiamare un attimo prima. Mi sembra ancora di averlo qui davanti che parliamo. Mah! Siamo otri gonfiati che camminano. Siamo meno delle mosche, che almeno un po’ di vitalità ce l’hanno, mentre noi non siamo altro che bolle. E se non avesse fatto la dieta terribile che sappiamo? È andato avanti cinque giorni senza inghiottire una goccia d’acqua o una briciola di pane. Eppure è finito nel mondo dei più. La sua morte ce l’hanno sulla coscienza i medici, o piuttosto un destino stramaledetto. A cosa servono poi i medici se non a tirare su il morale? Però gli hanno fatto un funerale coi fiocchi, disteso sul suo letto pieno di addobbi di lusso. In più l’hanno pianto di cuore per tutti quegli schiavi che aveva affrancato, mentre la sola che fingesse di essere straziata era la moglie. E che diamine avrebbe fatto, se lui non l’avesse sempre trattata come una regina? Le donne, che sanguisughe, le donne! Non si dovrebbe mai fargli del bene, perché è come buttarlo in un pozzo. L’amore col tempo è come averci il cancro».

Giravano discorsi di questo tipo, quando Trimalcione fa il suo ingresso in sala. Si asciuga la fronte, si lava le mani con una lozione profumata e poi dice: «Cari amici, perdonatemi, ma già da un po’ di giorni non vado di corpo e i medici non ci capiscono nulla. Tuttavia mi hanno fatto abbastanza bene la scorza di melagrana e l’infuso di resina all’aceto, e spero che il mio intestino torni a fare il suo dignitoso servizio. Se no mi ricomincia questo gorgoglio dalle parti dello stomaco che sembro un toro. Anzi se c’è qualcuno di voi che ha bisogno di andare in bagno, non è proprio il caso di vergognarsene. Nessuno è venuto al mondo senza buchi. E io non penso ci sia tortura peggiore che il doversi trattenere. Questa è l’unica cosa che nemmeno Giove ci può impedire. Ridi, eh Fortunata, proprio tu che di notte non mi lasci chiudere gli occhi? Ad ogni modo anche qui in sala da pranzo io non vieto a nessuno di fare i suoi bisogni, e i medici stessi sconsigliano di trattenersi. Se poi scappa qualcosa di più grosso, lì fuori c’è pronto tutto quello che serve: acqua, pitali e il resto degli accessori. Date retta a me, le flatulenze trattenute salgono al cervello e poi vanno in circolo per tutto il corpo. So che molti ci hanno rimesso la pelle, a forza di non voler guardare le cose in faccia».

Lo ringraziamo per la sua generosa comprensione, e subito soffochiamo un attacco di riso bevendo a piccoli sorsi, uno via l’altro. E non sapevamo, dopo tutta quella roba, di essere – come si dice – appena a metà strada. Infatti, una volta sparecchiati i tavoli a suon di musica, ecco entrare tre maiali bianchi provvisti di guinzagli e campanelli, che hanno, stando a quanto dice il presentatore, uno due anni, l’altro tre mentre il terzo già sei. Io pensavo che stessero per entrare gli acrobati e che i maiali si sarebbero esibiti, come succede nei circhi, in numeri straordinari. Ma Trimalcione, dissipando subito ogni dubbio, dice: «Quale di questi volete che vi venga immediatamente servito? Un galletto domestico, uno spezzatino di pollo alla Penteo e robetta di questo tipo la sanno preparare pure i contadini: i miei cuochi sono capaci di mettere in pentola e cuocere anche vitelli interi». Manda subito a chiamare un cuoco e, senza aspettare che fossimo noi a scegliere, gli ordina di scannare il più vecchio, chiedendogli ad alta voce: «Di che decuria sei?». Quando quello rispose che era della quarantesima, Trimalcione gli chiese: «Ti ho comprato fuori, oppure mi sei nato in casa?».

«Né l’uno né l’altro» risponde il cuoco: «ti sono stato lasciato in eredità da Pansa». «Allora vedi di servire bene, se no ti faccio sbattere tra i lacchè».

Messo sull’avviso dall’autorità, il cuoco si lascia trascinare in cucina dal candidato all’arrosto. Non aveva ancora finito di sparare tutte le sue idiozie, quando arriva ad occupare la tavola una teglia con dentro un maiale enorme. Noi restiamo senza fiato di fronte a una simile velocità di esecuzione e giuriamo che neppure un galletto domestico si sarebbe potuto cuocere in tempi così brevi, tanto più che quel maiale cisembrava molto più grosso che non poco prima. Ma Trimalcione, guardandolo e riguardandolo, sbotta: «Come? Questo maiale non è stato sventrato? Per dio, non lo è stato no. Chiamate il cuoco, lo voglio qui immediatamente». E quando il cuoco arriva con la coda tra le gambe e ammette di essersene proprio dimenticato, Trimalcione lo investe: «Cosa? Dimenticato? E lo dici come se avessi scordato di metterci solo il pepe e il cumino? Spogliatelo». Il cuoco viene immediatamente denudato e rimane lì avvilito in mezzo a due autentici boia. Allora tutti attaccano a prendere le sue parti. «Avanti, son cose che succedono» implorano in coro, «per favore, perdonalo: se lo farà un’altra volta, nessuno di noi dirà più una parola per lui». Io, che sono anche fin troppo severo, non riesco a trattenermi, mi chino verso Agamennone e gli sussurro in un orecchio: «Ma questo servo è davvero un cretino! Chi può dimenticarsi di sventrare un maiale? Io, com’è vero iddio, non lo perdonerei nemmeno se avesse scordato di farlo con un pesce». Trimalcione, invece, con l’aria rilassata e divertita, concede: «E va bene: visto che hai la memoria tanto corta, allora sventralo qui davanti ai nostri occhi». E il cuoco, dopo essersi rimesso la tunica, afferra un coltello e, menando colpi a destra e a sinistra con la mano che gli trema, apre il ventre al maiale. Ed ecco che dagli squarci che si dilatano per la pressione del ripieno vengono fuori salsicce e cotechini.

Alla fine arrivano gli acrobati. Un mezzo deficiente tira su una scala e dice a un ragazzo di salirci in cima un gradino dopo l’altro, ballando al suono di certe canzonette; poi di buttarsi attraverso dei cerchi di fuoco e di reggere un’anfora coi denti. L’unico che seguisse a bocca aperta era Trimalcione, il quale diceva che quello sì era un mestiere ingrato, e che gli piaceva vedere solo due cose al mondo, e cioè gli acrobati e i suonatori di corno. Tutto il resto – animali, concerti, ecc. – erano pure e semplici fesserie. «Un tempo avevo scritturato anche degli attori di commedia» aggiunge, «ma ho preferito che recitassero soltanto delle Atellane, e al mio flautista ho ordinato di suonare roba delle nostre parti».

E intanto Ascilto, con la sua solita faccia tosta, siccome sbracciandosi a più non posso sbeffeggiava tutto e tutti e aveva le lacrime agli occhi a forza di ridere, uno dei liberti amico di Trimalcione – proprio quello che stava seduto accanto a me – salta su tutte le furie e gli grida: «Che c’è da ridere, deficiente? Forse che non ti vanno a genio le finezze del mio padrone? Magari sei più ricco tu e sai trattare meglio la gente che inviti a cena.

Che il nume tutelare di questa casa mi assista, perché se sedevo vicino a quel ragazzotto, stai pur certo che a quello lì gli avrei già fatto chiudere il becco. Una testa di rapa che sbeffeggia gli altri! Un vagabondo, un brutto ceffo che non vale il suo piscio. Insomma, se gli orino addosso non sa nemmeno dove darsela a gambe.

Finita questa filippica, Gitone, che se nestava accucciato ai miei piedi, scoppiò anche lui in una risata sguaiata dopo essersi a lungo trattenuto. Non appena l’avversario di Ascilto se ne accorse, attaccò a prendersela col ragazzo e lo assalì con queste parole: «E tu? Adesso ti metti a ridere anche tu, pezzo di cipolla coi boccoli? Ma cos’è, siamo già a Carnevale, è già dicembre? E il tuo cinque per cento quand’è che l’hai pagato? Ma guarda cosa combina ‘sto pendaglio da forca, ‘sta carogna da corvi. Ci penso io, che Giove ti strafulmini, te e questo qui che non sa tenerti a bada! Possa il pane farmi schifo, se non è vero che lo lascio stare solo per rispetto al mio compare, liberto pue lui. Altrimenti l’avrei già messo a posto come si deve. Noi ce ne stiamo qua bravi bravi, e questi due cretini non sanno farti stare al tuo posto. Ma è un fatto che il servo è tale quale il padrone. A stento riesco a trattenermi: eppure sono uno che non si scalda subito, ma quando comincio non mi fermo nemmeno di fronte a mia madre.

Bene, razza di chiavica, ci vediamo fuori, brutto carciofo.

Ma il gran bailamme non si esaurisce nella zuffa, perché un candelabro, rovesciandosi sulla tavola, manda in mille pezzi tutti i vasi di cristallo, schizzando di olio bollente parecchi commensali.

Trimalcione, per far vedere che quel disastro non gli faceva né caldo né freddo, bacia il ragazzino e se lo fa salire sulle spalle. Quello non se lo fa ripetere due volte: gli si mette a cavalcioni e gli assesta delle gran pacche a mano aperta sulla schiena, strillando tra una risata e l’altra: «Indovina indovinello quante sono queste qua!». Dopo essersi finalmente sfogato, Trimalcione ordina di preparare un gavettone per dare da bere  ai servi seduti ai nostri piedi, ma a una condizione: «Se qualcuno non gli va, rovesciateglielo in testa: di giorno serietà, ma adesso allegria».

Dopo questo slancio di bontà arrivano delle altre leccornie, che, vi giuro, mi viene la nausea soltanto a ripensarci. A ciascuno degli invitati, invece dei tordi, portano una gallina d’allevamento, e uova di papera incappucciate, che Trimalcione fa di tutto per costringerci ad assaggiare, dicendo che erano galline disossate. Proprio in quel frangente un littore bussa alla porta della sala ed ecco entrare un nuovo commensale in tunica bianca e con al seguito un gran numero di persone. Impressionato da una simile maestà, io pensavo fosse arrivato il pretore, e così faccio per alzarmi, nonostante fossi a piedi nudi. Di fronte a questa mia agitazione Agamennone scoppia a ridere e dice: «Ma sta’ tranquillo, scemo. È soltanto il seviro Abinna, che è anche marmista e pare faccia delle bellissime lapidi».

«Ma dimmi un po’, Gaio, te ne prego, com’è che Fortunata non è della partita?». «Come? Non lo sai» gli risponde Trimalcione «che quella, finché non ha rimesso a posto tutta l’argenteria e distribuito gli avanzi ai servi, non butta giù nemmeno una goccia d’acqua?».

«Va bene» incalza Abinna, «ma se lei non si fa vedere, io alzo le chiappe e tolgo il disturbo». E aveva già fatto il gesto di alzarsi, quando, su ordine del padrone, tutta la servitù si mette a chiamare Fortunata quattro volte e più. Così lei arriva, con il vestito tenuto su da una cintura giallina che le si vedeva sotto la tunica color ciliegia, i cerchietti intrecciati alle caviglie e gli stivaletti dorati. Allora, asciugandosi le mani con un fazzoletto che aveva al collo, si va a sdraiare accanto a Scintilla, la moglie di Abinna, e mentre questa batte le mani, la sbaciucchia dicendo: «Te, beato chi ti vede!».

Tra un discorso e l’altro, si arriva al punto che Fortunata si sfila i braccialetti dalle braccia grassissime e li mostra a Scintilla tutta presa dalla cosa. Poi si toglie anche i cerchietti dalle caviglie e la reticella da capelli che a sua detta era di oro puro. Trimalcione segue la scena e poi, alla fine, si fa portare il tutto dicendo: «Ecco qua le catene delle donne! E noi, baccalà, ci facciamo ripulire fino all’osso. Questo qui mi sa che pesa almeno sei libbre e mezzo. Però un bracciale da dieci libbre ce l’ho anch’io, che me lo son fatto fare coi millesimi di Mercurio». Poi, per far vedere che non raccontava frottole, si fa portare una bilancia e pretende che i commensali se la passino per verificare il peso del bracciale.

Ma Scintilla non è da meno, perché si toglie dal collo un astuccio in oro da lei chiamato Felicione e ne estrae due orecchini che porge a Fortunata, dicendole: «Questi sono un regalo del mio signor marito che di più belli non ce ne sono».

«Sfido io!» sbotta Abinna. «Per farti comprare quegli affari di vetro, mi hai portato via anche la camicia! Stai pur certa che se avessi una figlia, le taglierei i lobi delle orecchie. Se non ci fossero le donne, ti tirerebbero dietro la roba. E invece, guarda un po’, ci tocca pisciare caldo e bere freddo».

Intanto le due donne, toccate nel vivo, mezze brille com’erano già, se la ridono e si sbaciucchiano, mentre una elogia il suo impegno di madre di famiglia, e l’altra si lamenta delle scappatelle del marito e di quanto lui la trascuri. E mentre se ne stanno così appiccicate, Abinna, senza farsi vedere, si alza e tira Fortunata per i piedi, facendola finire lunga e distesa sul letto. «O porca…» urla quella con il vestito che svolazza fin sopra le ginocchia. Poi però si ricompone e si va a buttare tra le braccia di Scintilla, nascondendosi con il fazzoletto la faccia resa ancora più volgare dal rossore.

Poco dopo Trimalcione ordina di servire il dessert, e i servi sparecchiano i tavoli e preparano dei nuovi coperti, spargendo per terra della segatura colorata di zafferano e di carminio e, cosa questa che non avevo mai visto, della polvere di mica. Subito Trimalcione attacca: «Certo poteva bastare la prima portata. Invece c’è anche il dolce. E se di là avete qualcosa di buono, allora portatelo».

La faccenda stava diventando nauseante, quando Trimalcione, ormai stordito dalla sbornia, ordina che entri nella sala una nuova banda – questa volta costituita da suonatori di corno – e, stravaccandosi su una montagna di cuscini, si sdraia in fondo al divano, dicendo: «Fingete che sia morto e suonatemi qualcosa di carino». Gli orchestrali attaccano un’assordante marcia funebre e specialmente uno di essi, il servo di quell’impresario di pompe funebri, che era il più rispettabile in quella combriccola, si butta sullo strumento con una foga tale da svegliare tutto il vicinato. E così, i pompieri che erano in servizio in quel quartiere, credendo che la casa di Trimalcione stesse andando a fuoco, sfondano subito la porta e si mettono a fare il loro solito caos a base di colpi di accetta e secchiate d’acqua. E noi, approfittando di quella meravigliosa occasione, salutiamo al volo Agamennone e filiamo via di corsa proprio come se stessimo scappando da un incendio.

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